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 psicologia 

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“L’Io diviso” è un libro scritto più di sessant’anni fa da un giovane psichiatra ventottenne che continua ad essere rieditato perché, a detta degli esperti, è interessante e abbastanza unico nel suo genere e, a mio parere, è un libro “poetico” che arriva dritto al cuore anche di chi non sa niente di psichiatria e pure poco di psicologia. La mia prima lettura di questo libro risale in effetti a parecchi anni fa quando iniziavo appena ad avvicinarmi ai testi di psicologia, filosofia, ecc., “mondi” a me totalmente sconosciuti, eppure questo libricino mi arrivò subito e mi rimase (mentre altri saggi di psicologia, pure importanti, dopo averli letti e anche sottolineati, li ho ricomprati un paio di anni dopo pensando di non averli mai letti…).
L’autore parla di schizofrenia con un linguaggio comune, comprensibile a tutti e parla dell’esperienza esistenziale delle persone schizofreniche, del loro modo di stare nel mondo e ce lo rende molto “vicino”: in effetti ciò che abitualmente viene relegato nell’alienità, nell’incomprensibilità, si rivela invece straordinariamente vicino, i confini tra normalità e psicosi si mostrano in tutta la loro labilità, facendo in fondo vedere le potenzialità psicotiche insite in ogni esistenza umana. Nelle descrizioni per esempio delle forme di ansietà di cui soffrono i pazienti schizofrenici è impossibile non riconoscere, in parte, alcune tonalità del nostro modo “normale” di essere schizoidi e tale riconoscimento, in qualche modo catalizzato dalla lente di ingrandimento dello stato psicotico, ci fa sussultare e comprendere.
Ma c’è di più, rileggendo il libro ora ne ho colto altri spunti di riflessione, che l’autore indica abbastanza precisamente in una delle sue prefazioni a un’edizione passata (l’edizione Pelikan del 1964) ancora molto attuale e che qui riporto in parte: La nostra civiltà non reprime soltanto gli istinti o la sessualità ma anche ogni forma di trascendenza. Fra uomini a una dimensione non c’è da meravigliarsi se qualcuno, avendo esperienze insistenti di altre dimensioni e non potendo né rinnegarle né dimenticarle completamente, è disposto a correre il rischio di farsi distruggere dagli altri o di tradire ciò che conosce. Nel contesto della follia che attualmente ci circonda e che chiamiamo normalità, salute, libertà, tutti i nostri sistemi di riferimento sono destinati a restare ambigui ed equivoci. Un uomo che preferisce la morte al comunismo è normale ma uno che dice di aver perduto la sua anima è matto. Un uomo che dice che gli uomini sono macchine può essere un grande scienziato ma uno che dice di essere lui stesso una macchina è, nel gergo psichiatrico, “spersonalizzato”. Il nostro stato “normale” e “ben adattato” non è, molto spesso, che una rinuncia all’estasi, un tradimento delle nostre più vere potenzialità.  BUONA LETTURA. F.P.

In fondo siamo tutti un po’ “schizzati”… Qual è il confine tra “normalità” e “pazzia”? Dov’è? Ma soprattutto c’è?! ...

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Hillman in questo libro - che ha per argomento la vocazione e il destino - si lascia ispirare dal mito platonico di Er secondo cui prima della nascita l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine per la nostra vita sulla terra e riceve un compagno, un daimon, con il compito di ricordarci il contenuto di questa nostra immagine, visto che nel venire al mondo ce la dimentichiamo. Riprendendo questo mito Hillman, con tutta la passione psicologica che lo contraddistingue, ci espone la “teoria della ghianda”: dentro ognuno di noi, già alla nascita, vi è un seme speciale, un’immagine innata che ci definisce e che ci chiama a realizzare qualcosa di unico (come la ghianda che racchiude in sé il potenziale di quercia). Per l’Autore, il daimon è proprio quella sorta di impronta impressa nella nostra anima, l’energia che colora le nostre inclinazioni e predisposizioni, che ci accompagna fedele e ci stimola alla grandezza, svolgendo la sua funzione di “promemoria” in molti modi, con ostinata fedeltà. Per riaprire il canale di comunicazione con il nostro daimondobbiamo tutti quindi focalizzarci sull’infanzia perché è lì che per la prima volta il daimon si è manifestato: cosa ci piaceva fare, il nostro carattere, cosa catturava la nostra attenzione… L’autore quindi sta dalla parte dei bambini, soprattutto di quei bambini definiti “problematici” perché seguono il ritmo di una musica diversa da quella cui le nostre orecchie adulte si sono ormai abituate e ci propone un metodo per guardarli con altri occhi e per scoprire nelle loro patologie possibili indicazioni del loro daimon e della loro vocazione che si esprime anche nei capricci, nelle ossessioni, nelle ostinazioni, nelle timidezze… che forse servono a proteggere il mondo che portano con loro e dal quale provengono. Hillman si sofferma così sull’eccessivo scientismo della psicologia moderna che a suo avviso non affronta in maniera soddisfacente il “senso della vocazione”, cioè quel mistero che sta al centro di ogni vita umana. Ci ricorda che l’unicità dell’esistenza va ben oltre i calcoli statistici e la classificazione diagnostica e auspica che anche la psicologia ponga le sue basi nell’immaginazione delle persone guardando alle storie cliniche con “la mente poetica, così da leggerle per quelle che sono”. L’essere umano non può essere solo il risultato del “gioco reciproco tra genetica e ambiente”. Se così fosse la biografia di ciascuno di noi sarebbe la storia di una vittima. Solo riconoscendo che la vocazione è un dato fondamentale della nostra esistenza - ovvero che c’è una ragione per cui si è vivi - che riusciremo a dare un senso ai problemi, agli ostacoli incontrati lungo il cammino comprendendo che “fanno parte del disegno dell’immagine, sono necessari a esso e contribuiscono a realizzarlo”. Interessante! Una lettura da lasciar sedimentare senza fretta, un dono per tutti noi, scritto con grande passione psicologica e capace di coinvolgerci e farci riflettere. Un libro di psicologia senza la parola “problema”, che guarda alle soluzioni, al “buono” in noi, che vuole coniugare la psicologia con la bellezza. BUONA LETTURA. I.P.

Dentro ognuno di noi, già alla nascita, vi è un seme unico e distinto, un’immagine innata che ci definisce e che ci chiama a realizzare qualcosa di unico, il daimon che ci accompagna fedele e ci stimola alla grandezza

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Ne "Il complesso di Telemaco", Recalcati si inserisce in quel filone di psicanalisti e filosofi che indagano la scomparsa della vecchia figura del padre nella nostra società, scomparsa che ha lasciato il ruolo pericolosamente vacante. Ma, partendo proprio dal concetto di “evaporazione del padre” teorizzato da Lacan, Recalcati ha il merito di introdurre un punto di vista nuovo nell’ambito di questa riflessione: individua nell’ultima generazione una fortissima domanda di padre, nuova nella storia della civiltà. Con un vero e proprio respiro di sollievo, apprendiamo in questo saggio che dopo il figlio Edipo (metaforicamente parricida) e il figlio anti-Edipo (abbrutito nel suo desiderio senza responsabilità) vissuti fino alla fine degli anni 70, e persino dopo il figlio Narciso (primo prodotto dell’evaporazione del padre, apatico nella mancanza di desiderio), oggi si profila una nuova figura filiale, anzi possiamo dire l’icona del figlio per eccellenza, il giusto erede della Legge del Padre: il figlio Telemaco. Telemaco nella disamina di Recalcati è il giusto erede non solo perché non vive il Padre come un nemico, ma anche perché non si limita ad aspettarlo scrutando il mare, infatti si muove alla ricerca del Padre esponendosi al pericolo e in questo movimento in avanti diventa l’unico erede degno della legge della Parola. Personalmente, ho trovato la lettura del saggio illuminante per comprendere più a fondo le difficoltà dei “giovani adulti” miei coetanei alle prese col proprio ruolo genitoriale, sia concreto che desiderato; e ho trovato confortante la considerazione di Recalcati per cui, pur nell’assenza del padre, possiamo come figli incontrare infiniti padri simbolici che ci trasmettano la Legge della Parola, che è limite e perdita. Solo questo incontro ci può rendere veramente umani, introducendo nel nostro cuore il Desiderio, e salvare dalla follia del nostro secolo dandoci formula per non impazzire fra Libertà e Responsabilità. Bello l’epilogo, con una testimonianza dell’autore banale, ma proprio per questo estremamente toccante.  BUONA LETTURA. C.S.

DeI venire meno della figura paterna è universalmente riconosciuto come un aspetto centrale della società dei nostri giorni. Recalcati individua però una nuova icona di figlio, Telemaco, che ci mostra che, pur nell’assenza del Padre, il processo di filiazione simbolica, di eredità della Legge del Padre e di conseguenza del Desiderio è ancora possibile

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C.P. Estés è la custode di vecchie storie e questa volta ci fa dono di una favola senza tempo, o meglio di una “storia nella storia”. Secondo l'antica tradizione magiara della sua gente, per rispondere alle domande sulla vita, specie se riguardano questioni di cuore e di anima, si evoca una certa storia che ne richiama un'altra da cui poi ne scaturisce una terza e così via, cosicché la risposta a un'unica domanda ha la lunghezza di tante storie in fila. Il protagonista è lo zio Zovár, sopravvissuto a un campo profughi durante la seconda guerra mondiale, un contadino cresciuto alla “scuola dei campi” e giardiniere di professione, legato alla propria terra e convinto che “ovunque poggiamo i piedi su questa terra, là c'è il giardino dell'Eden...il giardino di Dio”. Quest'uomo, ricco di saggezza e umiltà, straordinario narratore di storie, infonde nella nipotina l'amore per la terra che, come ripete spesso, deve essere trattata nel “raccoglimento, essendo ben presenti e consapevoli”. Ecco che in queste storie la terra diventa la metafora della vita e c'è spazio per la devastazione, il dolore, la riflessione, la gioia e la rinascita. Con forza Clarissa ci esorta a non arrenderci, ad avere fiducia nella vita, cioè in quella forza misteriosa che nasce dentro di noi e che resiste nonostante tutto, e ad avere pazienza perché il seme nuovo arriva sempre, anche se “il luogo aperto è un cuore afflitto, una mente torturata, o uno spirito devastato”… la terra che pare incolta sta solo riposando... Ho letto questo libro in un periodo difficile della mia vita ed è stato per me come una “buona medicina”, un balsamo che è arrivato a toccare le corde più profonde dell'anima e mi ha aiutata a risalire. In seguito ho sentito il bisogno di sfogliarlo nuovamente per ritrovare parole di saggezza che aiutano ad “alleggerire il cuore” e a rischiarare l'oscurità. Consiglio di leggere questa favola ascoltando con l'orecchio interiore, con la speranza che ognuno possa coltivare un proprio “bosco urbano” dove possa crescere “yerba buena”. BUONA LETTURA. I.P.

È possibile coltivare un bosco in città, un "bosco urbano"? L'autrice, seguendo l’esempio della sua famiglia che ovunque andasse lasciava sempre un pezzo di terreno incolto, libero di crescere come voleva, ci ha provato creando una storia fatta di storie che possono continuare a moltiplicarsi liberamente dentro ciascun lettore che presta ascolto con l’orecchio interiore…

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Un piccolo segno grafico, un accento che fa la differenza: una vita è i suoi libri. Recalcati, col medesimo tono appassionato a cui ci ha abituato nelle sue conferenze, si fa portavoce di un'esperienza tanto comune quanto mai abbastanza sottolineata ed esaltata: i libri, quando ci catturano nel profondo, non possono venir catalogati tra i comuni passatempi (nel qual caso sarebbe sufficiente parlare della vita e dei suoi libri), ma "formano" la nostra vita o meglio ce la svelano. I libri ci denudano... questa la tesi dell'autore. Non siamo noi a leggere, ma sono i libri a leggere noi. E dunque diventano strumenti di vita preziosissimi nella strada dell'autocomprensione. Certo non tutti i libri letti hanno questo potere ma ciascuno può rintracciare agevolmente i "mattoncini cartacei" posti a fondamenta della sua personalissima casa. Il resto del libro non è che un esempio autobiografico della tesi, certamente interessante, ma non quanto lo stimolo lanciato, in vero stile psicoanalitico, a ciascun lettore: quali sono i libri che ti hanno fatto "scoprire le carte"? Quelli che ti hanno reso più trasparente a te stesso? Io personalmente ho letto il libro in una nottata e mezzo, ma ho assaporato molto più a lungo il rinnovato gusto dei miei libri rivelatori, pietre miliari della mia vita. BUONA LETTURA. D.L.    

Il libro ci legge dentro

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